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Il fenomeno doping: storia, idee, incubi futuri (e possibili)

di Momia 3 agosto 2012

Metti una sera a cena con il Director of Rugby dell’ASR Rugby Milano, nella sua villetta ai piedi delle Alpi Lombarde, a un tiro di schioppo dal lago (ramo di Lecco), e metti sul tavolo una conoscenza decennale e un’amicizia personale fatta di rispetto reciproco e di attenzione, che, come tutte le cose vere, cresce piano, sedimentando giorno dopo giorno come il calcare di una stalattite. Su quel tavolo, oltre a dell’ottimo salame speziato e a dell’acqua gassata (niente alcolici), trova spazio un argomento spinoso, duro e difficile, come il doping; la sua storia, il suo sviluppo, la sua trasformazione nella società, e i suoi (inquietanti) sviluppi futuri possibili.

Ivano Bonacina ha 56 anni e 130 chili di storia, per oltre 185 cm di altezza. Sposato con Pierangela, padre di due ragazzi, Emma e Danilo, e un fisico che sembra nato per lo sport, per l’attività. Le sue grandi passioni sportive, canoa e rugby, hanno segnato il suo percorso sportivo, che dura da quarant’anni. Ha la qualifica FICK di maestro di canoa fluviale, ha partecipato per circa 10 anni al settore agonistico del Kayak, e ha contribuito ad organizzare due volte i Campionati italiani di  Kayak sull’Adda a Sondrio. Ivano dal 2002 è allenatore di rugby di 3° livello e ha frequentato diversi stage e corsi in Italia e all’Estero.

La sua carriera come giocatore di rugby inizia nel 1978 nel Lecco, e approda attraverso diverse esperienze nel Bergamo, dove affronta la C1, la B sino alla A. Dal 1991 è allenatore, ruolo che ha ricoperto sino all’anno scorso, da quando è passato a DR (fonte: ASR MILANO). Ivano affronta l’argomento doping come affronta ogni cosa: chiedendosi il perché, chiedendosi da dove ha avuto origine, e analizzando le implicazioni sociali del fenomeno, arrivando ad alcune conclusioni tanto inattese quanto inquietanti.

D:  Ivano, cos’è il doping?

R: Partiamo col dire che sono sempre stato contrario all’uso del doping. Sempre. Ma devo ammettere che secondo l’esperienza che mi sono fatto, purtroppo c’è sempre stato. E si è evoluto, come significato, nel corso del tempo. Il doping, all’inizio, era ricerca scientifica applicata. Successivamente si è declinato nell’assenza di una disciplina etica, prima ancora che nello sport, nella società civile. Il doping è difficile da definire perché è difficile comprenderne la portata etico sociale.

D: Quando è iniziato il fenomeno doping, nell’accezione moderna, secondo te?

R: Anni fa ho avuto la ventura di andare a visitare un campo di concentramento nazista, a Mauthausen e a Dachau. Ad Auschwitz, nello specifico, operava il famigerato Dottor Mengele. Esperienza terrificante, quella, ma che mi ha permesso di riflettere sul significato di alcune delle più abiette azioni messe in pratica in quel luogo. Ed erano sperimentazioni di sostanze, su esseri umani, legate ad un tentativo (anche) di produrre uomini potenziati, con una ricaduta immediata sia in campo militare, ovviamente, ma anche in campo sportivo. Se vogliamo togliere l’orrore della pratica e analizzare solo il significato di quei primi tentativi, ecco, io lì ci vedo l’inizio del concetto di doping moderno. Tornando a tempi più solari, e ampliando il concetto di ricerca di superamento dei limiti umani, se vai a visitare il museo della Montagna di Reinhold Messner in Val Senales, entri in contatto con la sua filosofia di vita di montagna tutta incentrata sul superamento dei propri limiti, ma senza uso di sostanze o mezzi ritenuti dopanti, in senso lato.

D: Quindi il doping nasce come esigenza pionieristica di portar se stessi oltre i propri limiti?

R: Il doping moderno nasce da lì, da quell’esigenza di superamento dei propri limiti, esatto. Perché c’è un fascino, una eccitazione, che l’uomo ha scoperto portando se stesso al limite, e questo fascino ti porta a rischiare tutto, rischiare la tua stessa vita.

D: Il doping è tale solo se applicato in un contesto sportivo con regole codificate, o è assimilabile al doping anche altro?

R: Vedi le montagne qui attorno? Qui c’erano i Ragni di Lecco. C’erano Cassin, c’era Bonatti, Mauri. Per molti di questi alpinisti, Messner incluso, l’utilizzo degli spit, dei chiodi ad espansione cementati era assimilabile all’uso di doping… Il doping non è solo utilizzo di sostanze chimiche che potenziano e/o esaltano la tua prestazione fisico-mentale, ma è anche tutto ciò che esula da un contesto scritto e non scritto che regola l’attività umana nella società. Ed è per questo che è così difficile descriverlo univocamente, e praticamente impossibile combatterlo efficacemente. Per tornare all’esempio delle chiodature ad espansione, è interessante chiedersi perché vennero introdotte ed utilizzate. E il motivo sta nel fatto che utilizzando tali attrezzature si riusciva a percorre vie per primi, arrivare in cima per primi. La motivazione è questa. Occorre focalizzare l’attenzione sullo strumento: può essere un farmaco, un ormone, o un chiodo.

D: E’ trasversale questa concezione di doping? E’ applicabile in generale a tutti gli sport?

R: Guarda, nelle gare di discesa su fiume, parlo di Canoa, è molto importante prendere il filo veloce dell’acqua, perché non tutta la larghezza del fiume ti porta alla stessa velocità verso il traguardo. Per esperienza ti dico che in una gara di Coppa Europa, anni fa, di notte i membri di una squadra andarono con rami e bastoni a buttare nel torrente un masso enorme, che era in grado di deviare il flusso veloce del filo d’acqua, nella direzione voluta. Poichè il giorno prima la ricognizione è libera, questi signori operarono di notte, visto che la gara era il giorno successivo. Come lo chiameresti questo? Questo, per me, è doping, anche se in senso lato. E’ barare. Il doping, a mio avviso, deve cominciare ad essere disgiunto dal prodotto o dalla sostanza; dev’essere legato al perché lo fai.

D: Perché lo si fa, quindi?

R: Perché lo sport, oggi, è semplicemente troppo legato al risultato. Non è importante riconoscere il proprio limite e come fai per commisurarti con quello, ma è importante solo il fatto che tu lo superi, per arrivare primo. Nel nuoto, a queste Olimpiadi, la Pellegrini è arrivata quinta, e si parla di fallimento. Nei 100 farfalla donne la Bianchi è arrivata quinta, e si parla di successo. Qual’è il metro? Ero a Roma nel 1987 all’Olimpico, a vedere la finale dei 100 metri piani, quando Ben Johnson chiuse in 9.83. Ma tutti sapevano che il ragazzo era dopato. Se sei un addetto ai lavori e hai un po’ di competenza specifica, noti perfettamente quei segni sul viso, sul corpo che ti rivelano chiaramente l’uso di doping. Perché Ben Johnson lo faceva? Sapeva che sarebbe stato pizzicato? Sicuramente sì. Il motivo che spinge questi ragazzi a barare è l’esigenza del risultato. E’ una questione di obiettivi.

D: Qual’è il tuo obiettivo?

R: Ti rispondo brevemente e indirettamente. Ho allenato per moltissimi anni tanti ragazzi, dall’under 10 sino in Seniores. Oggi questi uomini sono sereni, maturi nella loro dimensione, sia essa di eccellenza, sia essa legata ad altri livelli, e quando li incontro hanno tutti parole di simpatia e di attenzione per me, come io le ho per loro. Io non ho mai chiesto a loro di fare tutto il possibile per arrivare al risultato, come l’ambiente chiede. Io chiedo a loro di arrivare al loro limite, ad impegnarsi e ad allenarsi per tendere al superamento del loro limite fisiologico. Se questo superamento non coincide col risultato c’è chi parla di delusione; io parlo di successo. Io definisco questo il limite etico dello sport. Vuoi un esempio tipico? Il Regolamento Etico viene letto da un genitore il giorno in cui iscrive il figlio per la prima volta, per vedere in che ambiente lo sta facendo entrare. E poi lo va a rivedere solo nel momento eventuale in cui il figlio va in eccellenza, per vedere cosa si può fare per non infrangerlo. In mezzo anni di nulla. Ma è in quegli anni che invece io lavoro passo dopo passo utilizzando quell’etica.

D: Serve il doping?

R: Per il risultato, molto. Alla platea interessa che tu vinca. Non che tu sia uno sportivo.

D: E’ possibile ottenere risultati simili a quelli da doping, senza doping?

R: Senza tempo e talento a disposizione, no. Ma dipende da cosa intendi. Ad esempio, ai miei tempi, nessuno si beveva una bevanda alla caffeina in lattina prima della prestazione. Perché non c’era. La carica e la concentrazione, le frequenze e l’adrenalina te le dovevi far venire fuori utilizzando tecniche di preparazione fisica e mentale, che col tempo perfezionavi. Io iniziavo al mattino appena sveglio, col rituale pre partita, per arrivare all’entrata in campo pronto e carico. Ora ti bevi due lattine e sei pronto. Ma per il resto, il doping è insostituibile nell’accorciare tempi di crescita e di recupero.

D: Fa male, il doping?

R: Sempre. Ma occorre intendersi. Gli atleti di alto livello sono seguiti da staff medici che si prendono cura della loro salute, oltre che della sua prestazione. Sulla base delle esperienze che si sono accumulate negli anni, la medicina è arrivata ad un notevole livello. Ci sono situazioni in cui un atleta sa, ogni 6 ore, cosa succede e com’è messo il proprio fisico. Nelle categorie inferiori, invece, dove c’è un passaparola dall’alto al basso, dilettanti, amatori, semplici curiosi, utilizzano queste sostanze in modo totalmente incontrollato. Ed è lì che diventano pericolose, rischiose. E fai attenzione a questa cosa: il doping fa male anche indirettamente. Ipotizza che l’Italia da adesso in poi vada a vincere un oro al giorno alle Olimpiadi. Questo farebbe scomparire i problemi di produzione, di spread, di occupazione dai giornali italiani. Non è anche questo un doping? Non è anche questo un barare? C’è stata quindi una sorta di “trasfigurazione” del doping originario, cioè quello che veniva utilizzato con l’obiettivo di superare se stessi. Ora il doping sembra diventato anche una sorta di strumento di gestione e di controllo sociale, non solo della prestazione dell’atleta.

D: Il doping dà dipendenza?

R: Purtroppo sì, ma non è una dipendenza fisica, bensì psichica. Se tu sei abituato a placcare dieci volte in un minuto usando sostanze, il giorno che senza doping ne fai solo otto, non ne sei contento affatto, non ti riconosci e torni a farne uso. E’ una questione di obiettivi, di risultati. Da cui la dipendenza psichica dalle sostanze dopanti. E’ un grosso lavoro che dobbiamo fare noi operatori, allenatori, tecnici e addetti ai lavori.

D: Il doping si è fatto così sofisticato da costringere lo sportivo ad avere staff medici e a circondarsi di altre persone. Perché lo fanno?

R: Per soldi, non per altro. Devi immaginare lo sportivo o gli sportivi che decidono di intraprendere questa strada, come se fossero parte di una strana azienda, composta da staff medico, da procuratori, avvocati, e artigiani dell’integratore. Questo gruppo di persone ha come obiettivo la massimizzazione del profitto, come qualsiasi azienda. E il profitto si ottiene fondamentalmente vincendo. Il resto viene di conseguenza.

D: Mi stai dicendo che per questi gruppi, lo sport è da intendersi come una sorta di reality show, dove tutto sembra vero ma è fasullo?

R: Purtroppo sì. Perché uno deve fare sport? Perché uno deve aver piacere di far fatica? E’ l’obiettivo, è sempre quello che guida la scelta. L’obiettivo è vincere? Allora il doping è la naturale conseguenza. Il resto, l’organizzazione i gruppi di interesse di tipo aziendale è solo logico e massimizzante. La gratificazione personale diventa quella di essere protagonisti su un palcoscenico, non di aver lottato contro il proprio limite. E’ la visibilità, la passerella ciò che rende fenomeni, è il costume che c’è oggi qui. Si parla della Pistola dai 10 metri ad aria compressa solo se ci sono le medaglie olimpiche. Ma della pistola o della carabina, in media, non frega nulla a nessuno.

D: Le sostanze, i principi, che vengono utilizzati da questi artigiani del farmaco che lavorano in queste pseudoaziende, sono testati? C’è altro oltre a ciò che si vede?

R: Il doping viene utilizzato, in quest’ultimo periodo, per ridurre i tempi di recupero, per aumentare il ritmo, per aumentare le frequenze. Si sono raddoppiati, praticamente, gli impegni agonistici di uno sportivo, all’anno. L’uomo è sempre lo stesso, e deve quindi aiutarsi per restare performante ad alto livello. Il numero di eventi aumenta perché il pubblico fruisce, guarda, paga. Le televisioni acquistano, gli sponsor investono. Lo sportivo è soltanto una parte, per quanto importante, della catena. Tempi brevi per crescere, per arrivare, per performare: questo è il nuovo obiettivo. E il doping arriva a realizzare questo.

D: Il futuro del doping, stando a quanto si legge nei quotidiani ultimamente, è il cosiddetto doping genetico. Ne vogliamo parlare?

R: E’ ora di alzare i paletti, noi addetti ai lavori dobbiamo alzare i paletti, perché questa minaccia bypassa il problema sportivo, e anche del risultato. Va oltre. Va oltre anche al narcisismo di chi si dopa per tendere ad un modello fisico, e non per questioni sportive. Perché con il doping genetico, con questa folle ricerca all’ubermensch, si realizza il progetto di Mengele, e si ritorna all’inizio di questa chiaccherata. Il doping genetico è irreversibile e tocca nell’intimo la realtà stessa dell’individuo. L’irreversibilità fisica ed ideale di questa forma di doping deve essere chiara e netta. Questa realtà deve essere combattuta in modo netto, perché lo sport non deve essere utilizzato come campo di sperimentazione medica. Sappiamo bene che questo doping genetico è allo stato attuale irrealizzabile tecnicamente. Ma sappiamo altrettanto bene che se la teoria ci dice che una cosa si può fare, la tecnica ha solo bisogno di tempo per poterla mettere in pratica efficacemente.

D: Se il doping genetico diventasse realtà, che fine farebbe l’eroe?

R: Morirebbe, per non aver più necessità d’esistere. Morirebbe l’eroe, e con lui morirebbe lo sport, e tutti quei valori che ci hanno contraddistinto.

 

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