L’arbitro che mise le cose in chiaro con l’ormai famosissimo “This is no soccer”, per il quale dovrebbe essere immortalato con tanto di statua al centro di una piazza. Ecco il primo dei video che vi propongo per ricordare la sua figura, oltremodo significativi della sua personalità.
Ma se gli venisse dedicato un monumento ne sarei contenta soprattutto per un altro motivo. Unico fischietto gallese designato dei Mondiali di Rugby del 2007, si decise, in quell’occasione, al grande salto pubblico: in un’intervista a Wales on Sunday fece coming out rivelando la sua omosessualità. Un’intervista a cuore aperto per togliersi l’ultimo sassolino fastidioso dopo che anni prima aveva svelato la sua condizione alla famiglia.
Nigel, l’arbitro gay che ha spiazzato lo sport più maschio, è un uomo che merita rispetto; a parer mio la sua forza è lontana anni luce dalle atmosfere che si respirano nel nostro Paese, purtroppo, dove sarebbe stato oggetto di pesanti critiche.
Owens nacque in un paesino gallese dal nome impronunciabile (Mynyddcerring) nei pressi di Llanelli dove il rugby si serve a tavola con la mostarda. La sua carriera nel mondo del rugby, dove tutto sembra così maschio, lui l’ha raccontata anche in un libro “Half in time” in cui spiega senza mezzi termini di aver vissuto a lungo in una bugia. Ma è innegabile che con il suo coming out sia riuscito a mostrare l’altra faccia di questo sport dove i tabù sono sempre meno, basti pensare alle divertenti squadre formate solo da omosessuali ed alle sfide senza veli tra neozelandesi e sudafricani che si ripetono ormai da tempo.
Con tutto ciò non vuol dire che la sua scelta non abbia significato sofferenza, ma ha avuto coraggio, sì, il coraggio che nasce dalle paure e dal dolore. Nell’apertura della sua autobiografia racconta della sua caduta nelle profondità della depressione, parole che fanno meditare e rabbrividire.
Nell’aprile del 1996, alle tre e mezza del mattino, Nigel esce di casa lasciando un biglietto ai propri genitori spiegando loro che era giunto al capolinea della sua vita. Soffre di bulimia, la sua autostima è pari a zero, si vergogna di essere omosessuale, non vuole esserlo e non vuole che si sappia. Così quella mattina va fino alla cima del monte Bancyddraenen che domina il villaggio dove ha vissuto tutta la vita e inghiotte un flacone di sonniferi; ha anche un fucile con sè nel caso in cui le pillole non funzionino. La sua vita, però, non è giunta al capolinea come crede: ha la fortuna di essere trovato in tempo e condotto in ospedale.
“Non dimenticherò mai – dice – mia madre e mio padre che piangevano quando giunsero in ospedale. Sei il nostro unico figlio, mi disse mia madre, se farai di nuovo una cosa del genere dovrai prendere anche noi due con te. In quel momento capii l’enormità del mio gesto. I mesi seguenti furono difficili, dovetti confrontarmi con l’imbarazzo e la vergogna di ciò che avevo fatto e del perchè l’avessi fatto, ma la mia famiglia ed i miei amici furono di grande aiuto, come la maggior parte delle persone. Sono stato molto, molto fortunato. Ho avuto una seconda possibilità.”
Troppo spesso non ci soffermiamo a pensare che l’omosessualità non è una questione di come si fa sesso, bensì una questione di sentimenti. L’omosessualità non è un reato, un’aberrazione, non è andare contro natura. Le vere colpe sono ben altro. Colpevole e perverso è colui che non rispetta la dignità di un altro essere vivente, chi uccide, chi stupra; colpevole e degno di essere punito è colui che, detenendo il potere, lo usa portando un popolo alla rovina o calpestando qualsiasi diritto umano. Il diritto alla serenità, all’appagamento, non dimentichiamolo, è un diritto insindacabile.